Wednesday, March 20, 2013

How could humanity allow civil wars?

(Christmas 1995) I was much younger, my dreams were bigger and I was a bit unmindful or too adventurous: went to Croatia and Bosnia to join some volunteers in a refugee field. [In the early 90’s the world witnessed the disgregation of former Yugoslavia] One night we traveled on a half broken Fiat Panda all the way to Mostar city to bring some medicine to the needy people there. Back then Mostar was hot, 7 km from the war front line: that was the only time I have heard - beside in a cinema - the sound of nearby falling grenades.

Today I was reading the following interview on the newspaper (next Friday there will be Croatia vs. Serbia football game, the second ever after the civil war) and my heart went back to those places and those people. I’m feeling sad: how could humanity allow and tolerate those atrocities? I remember a teenager who lost his eyes because I stepped on a mine, later he and his sister got asylum and went to live in Italy, a place nearby my hometown. We kept in touch and we met several times, I remember my mother was happy to invite them for dinner time to time. I’m feeling upset with myself: I have forgotten these brothers’ names. But their face is clear and vivid in my heart.

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The Old Bridge, built by the Ottomans in the 16th century, is one of Mostar’s (Bosnia) most recognizable landmark.

Mihajlovic and Croazia vs. Serbia: “My game of war and peace” italian_flag.jpg

sinisamihajlovic.jpg“Allora, ti racconto: 9 ottobre 1999, la mia Serbia si chiamava ancora Jugoslavia, era la prima e finora unica volta, dopo la guerra, che incontravamo la Croazia. Ultima gara, decisiva, per la qualificazione agli Europei. Dentro o fuori. Lo stadio di Zagabria era un vulcano. Polizia ovunque. Avevamo ancora la guerra sulla pelle. In campo c’erano tanti ex compagni della vecchia Nazionale. Stavolta uno contro l’altro. Io ero uno di loro…”. Sinisa Mihajlovic, seduto in poltrona, si accende una sigaretta e per una volta, lui abituato sempre a fissare tutti negli occhi, guarda altrove, in un punto indefinito, e si perde nei ricordi. “Entriamo in campo, una bolgia: guardo verso la curva croata, c’è uno striscione “Vukovar 1991”, la città simbolo della guerra. La città dove io, figlio di madre croata e padre serbo, sono nato e cresciuto. Mi avvicino, mi inginocchio e mi faccio il segno della croce per ricordare i serbi caduti. Lo stadio per poco non viene giù. Mi urlano di tutto. Ma ogni volta che batto una punizione o un calcio d’angolo non vola una mosca per il timore. Prendo un palo, una traversa e faccio due assist per i gol di Mijatovic e Stankovic: 2-2, qualificazione ed eliminazione della Croazia. Sui giornali serbi prendo 10 in pagella. Quella resta la partita più sentita della mia carriera, non la dimenticherò mai”.

La sigaretta è finita senza che Sinisa abbia dato neanche una boccata. Polmoni vuoti di fumo e cuore pieno di orgoglio. Quindi si volta e torna a guardare negli occhi. “Se ho accettato di fare il c.t. è anche per questa sfida con la Croazia. Darei tre anni di vita per poter scendere in campo in questa partita. Non dico per vincerla, solo per giocarla. Spero di riuscire a trasmettere ai miei almeno un po’ della mia voglia. Ma…”. Sinisa si ferma, guarda l’orologio: le lancette dicono che sono passati più di 13 anni. Un intervallo lunghissimo tra un primo e un secondo tempo dell’esistenza. “Ma… - riprende - questa partita non è la continuazione di una guerra. Quella vera, maledetta e sporca l’abbiamo già vissuta e ne portiamo ancora addosso ferite e cicatrici. Questa è solo una gara sentita, calda, importante: per la classifica e per la crescita dei miei ragazzi. Abbiamo 4 punti, Croazia e Belgio 10. Se vinciamo, arriviamo a -3 e siamo ancora in corsa”.

È calcio, solo calcio. Anche se a petto in fuori come piace a lui. “Come c.t. mi sono dato tre obiettivi: la qualificazione ai Mondiali; aprire un nuovo corso fatto di regole, fair play e senso d’appartenenza; ridare alla Serbia un’immagine positiva dopo anni di intemperanze dei tifosi. Il primo obiettivo passa attraverso la sfida di venerdì. Il secondo è avviato: abbiamo la nazionale più giovane d’Europa, età media di 22-23 anni. Le regole sono fissate e chi non le segue è fuori. Ai miei tempi avevamo una Nazionale fortissima: ma ognuno faceva come voleva, per questo non vincevamo niente. Ho capito dopo che la disciplina è fondamentale. E oggi ho spalle larghe, carattere e curriculum per farmi ascoltare”.

Poi c’è la questione dell’inno, che è costato la nazionale a Ljajic. “Quando giocavamo con la Jugoslavia i nostri tifosi fischiavano il nostro inno simbolo di un’unione non sentita. Quelli avversari invece cantavano a squarciagola il loro e a me sembrava di partire già in svantaggio. Da c.t. ho preteso che giocatori e staff cantassero l’inno serbo. C’è un regolamento: Ljajic l’ha firmato. E alla prima occasione l’ha disatteso. Io non guardo solo al talento, guardo l’uomo. E dell’uomo devo potermi fidare. Quando canterà l’inno, tornerà”. Ma c’è anche quello avversario: “Io e i miei giocatori lo applaudiamo sempre, in segno di rispetto. Sarà così anche con l’inno croato. E se qualcuno dei miei venerdì si farà espellere per comportamenti antisportivi, aizzando gli animi, non giocherà più in nazionale. Il mondo ci osserva. È arrivato il momento di dimenticare il passato, tendere la mano e guardare avanti. E se lo posso fare io che la guerra l’ho vissuta sulla pelle, perché non devono farlo ragazzi che all’epoca non erano neanche nati?”.

Lo sguardo si allontana nuovamente: “Le guerre, tutte le guerre, fanno schifo. Ma una guerra civile come la nostra è peggio. Ragazzi cresciuti insieme che si sparavano contro, famiglie disgregate. Io ho visto la mia gente cadere, le nostre città rase al suolo, bombe su ospedali, scuole, civili: tutto spazzato via. Il mio migliore amico ha devastato la mia casa. Quando i miei genitori hanno lasciato Vukovar per Belgrado, mio zio, croato e fratello di mia madre, le ha telefonato: “Perché sei scappata? Dovevi rimanere qui, così ammazzavamo tuo marito, quel porco serbo di m…”. Mesi dopo mio zio fu catturato da Arkan, stava per essere ucciso, ma gli trovarono addosso il mio numero di cellulare. Mi chiamarono, e riuscii a salvargli la vita”.

Già Arkan, la tigre, il macellaio. Il necrologio per lui è costato a Mihajlovic anni di critiche: “Da fuori, seduti in poltrona, è stato facile puntare il dito. Ma Arkan era un mio amico da quando, ragazzo, giocavo nella Stella Rossa e lui era il capo dei tifosi. E Arkan ha difeso dei serbi in Croazia che stavano per essere massacrati. Per quei serbi Arkan è stato un eroe. Non rinnego quel necrologio, ma non difendo i suoi crimini. Quelli restano. Sono orribili. E li condanno. Come tutti i crimini commessi, da una parte e dall’altra. In una guerra civile non esistono i buoni e i cattivi. Non c’è il bianco e il nero. E il colore predominante alla fine è sempre il rosso. Del sangue degli innocenti. La guerra in Jugoslavia ha tanti colpevoli. Tanti”.

Sinisa oggi è ambasciatore Unicef e fa molto per orfani e reduci di guerra: “Durante il conflitto io non compravo armi, ma medicine, abiti, cibo. A Novi Sad mi hanno dato la cittadinanza onoraria per questo”. E la sua Vukovar? “Ci sono andato l’ultima volta nel 1991. Era rasa al suolo, non riuscivo neanche a orientarmi. Solo scheletri di palazzi e macchine ammassate per creare trincee. Non volava un uccello, non c’era un cane. Spettrale. Ricordo lo sguardo di due ragazzini di 10 anni, imbracciavano i mitra. Avevano occhi da uomini in corpi da bambini. Occhi tristi che avevano già visto tutto, tranne l’infanzia. Non sono più tornato a Vukovar. Non ci riesco. Ma quello che ho provato io, può raccontarlo anche un croato. Abbiamo vissuto un impazzimento della Storia. E abbiamo pianto e perso, tutti. Ora dopo i corpi è arrivato il momento di seppellire anche odii e rancori. Serbi e croati non torneranno mai più insieme, ma hanno il dovere di andare avanti rispettandosi. E se la partita di venerdì verrà disputata all’insegna della correttezza, in campo e fuori, Croazia e Serbia avranno vinto entrambe, al di là del risultato”.

by Andrea Di Caro

http://www.gazzetta.it/Ca … ra-pace-92556383546.shtml

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